Di che parlo quando parlo di scrivere

Di che parlo quando parlo di scrivere

Cara lettrice sconosciuta,
in pure stile gattiano (cioè io, in puro stile mio. Senza un aggettivo in -ano la frase non filava altrettanto bene. Ed ecco che inizio già con le tangenti, nemmeno ho iniziato il post, mannaggia)…
Dicevo: in pure stile gattiano, trasformo leggermente frasi che mi piacciono e/o considero di dominio pubblico per poi paralizzarmi e pensare: ma sarà vero?

No, va be’, ricominciamo di nuovo.
“Di che parlo quando parlo di scrivere” è un prestito di un bellissimo titolo di un altrettanto bellissimo libro di Murakami, che in Italia, perché evidentemente siamo stronzi, abbiamo tradotto male come “L’arte di correre”. In puro stile gattiano l’ho trasformato in scrivere, e visti i miei precedenti non potevo certo chiamarlo “L’arte di scrivere”, quindi ho optato per la traduzione letterale.
Nel libro Murakami racconta del suo rapporto con la corsa. Le maratone, le lunghe ore al freddo, al caldo, a mettere un piede davanti all’altro a ritmo costante. Racconta di come finisca a conoscere, pur senza mai scambiarsi una parola, i corridori più assidui di Tokyo. Di cosa lo spinge a uscire ogni giorno, di come per qualche anno ha smesso, come un qualsiasi fumatore incallito, per poi ricascarci e non uscirne più. Lo fa con quel suo stile onirico, che ti ingarbuglia la testa e fa suonare poetica qualsiasi cosa.
E ti fa venire voglia di metterti le scarpe e uscire a correre. Di provare quelle cose di cui scrive e che anche tu vorresti provare.

E magari un paio di volte mi ci ha pure convito, ma non di più. Perché io quelle cose non le provo. Sarò anche un pazzo scatenato, ma no, a me correre senza meta non rilassa, non innamora, e non aiuta a pensare.
E di aiuto per pensare, sinceramente, non ne avrei nemmeno bisogno. Il contrario, semmai.
Il problema è riuscire a pensare a una cosa sola, e poi farla. E rifarla. E rifarla. E rifarla fino a quando non si ha finito. La maggior parte delle volte, alla quinta mi sono stufato e sto già pensando ad altro.

Quando parlo di scrivere, quindi, quando penso e affermo “va là, che voglia di scrivere un libro su questo tema!”, in realtà la mia mente di sdoppia, o forse striplica (abbi pazienza, non ho ancora deciso, vado a braccio). Una parte si gasa, vedendosi già a opera conclusa: tronfia, ebbra e vincente; una seconda parte inizia già a predisporre il necessario: avremo bisogno di acqua e viveri per almeno sei anni (sono lento), di eseguire le dovute ricerche in tema di X, dovrà per forza accadere almeno Y e Z, eccetera, eccetera; una terza parte si preoccupa, conscia che le probabilità di successo sono simili a quelle di vincere la lotteria senza giocare (che poi credo che siano le stesse di vincerla giocando); e una quarta parte (ecco, vedi, dovevo dire squadruplica) si fa prendere dall’ilarità, un po’ perché in effetti fa ridere, e un po’ perché è assai sempliciotta, questa mia parte.

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Sempre in anticipo, sempre in ritardo

Sempre in anticipo, sempre in ritardo

Cara lettrice sconosciuta,
Come forse ricordi, poco più di un anno fa (grossomodo esattamente il 9 marzo 2021), presi la decisione di continuare la storia di Layne il principe non azzurro e di “metterci di dentro anche i pirati” (cit).

Come successe con l’Accademia per Principi Azzurri™ e Shrek III, sono in anticipo sui tempi, ma in ritardo con la produzione.

Come volevasi dimostrare, nell’arco di questo “poco più di un anno”, è uscita una serie comica sui pirati che sta conquistando il mondo, Our flag means death, e addirittura Ron Gilbert ha annunciato che dopo un trilione di anni di attesa dove ormai nessuno ci credeva più, presto uscirà un nuovo Monkey Island. IL nuovo Monkey Island. La SUA versione di Monkey Island III (che IMHO è fighissimo così com’è, ma va be’).

Cioè.

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L’importanza di essere ernesto (con se stessi)

L’importanza di essere ernesto (con se stessi)

Cara lettrice sconosciuta,

ecco, mi sono scorticato le mani.

Per anni ho tenuto duro, stringendo una corda grezza di canapa con entrambe la mani.
Non è che facessi molto caso alla corda in sé. Guardavo altrove, più che altro. Allungavo il collo, cercavo di mettere a fuoco qualcosa al di là delle mie spalle, ma la corda e ciò che vi era legato non è che mi interessasse più di tanto.
Col tempo, però, tenere la corda si è fatto più faticoso, come se ciò che vi era legato stesse penzolando da un dirupo e quella corda che stringevo fosse il suo ultimo appiglio.
E oh, alla fine pesava troppo, e la corda m’è scappata.
Massì, m’è scappata, e mi ha pure scorticato le mani…

Cosa reggeva? Il mio italiano.

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Non c'era una volta un post

Non c'era una volta un post

Cara lettrice sconosciuta,

sono un po’ offeso, a dire il vero.
Giorni or sono ti ho giocosamente sfidato a trovarmi un titolo accattivante per il blog perché ero troppo pigro per farlo da me. Mi aspettavo che centinaia di lettrici sconosciute rispondessero alla chiamata, ma ahimè così non è stato.
C’è stata sì la bellezza di 1 proposta, della quale ringrazio l’autrice, ma ahimè otra vez, non somigliava molto a un titolo di post.

Come se non bastasse, i miei scherzosi amiconi d’infalescenza mi hanno deriso in un gruppo di Whatsapp. Tra le burle, però, un barlume di speranza. Anzi un burlume, perché pur sempre burla era.

  • A: Perché non optare per un più classico: “C’era una volta”?
  • B: O un sorprendente: “Non c’era stavolta”.
  • A: Bellissimo, approvo.
  • B: O un intrigante: “C’era una volta, e c’è tuttora”, o un più complesso: “Se ci fosse stato quella volta, non ci sarebbe bisogno che ci sia ora”.

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Ti presento Voodoo Child

Ti presento Voodoo Child

Cara lettrice sconosciuta,

Da qualche settimana non faccio che parlarne, quindi devi proprio aver vissuto sotto una pietra (o semplicemente molto, molto lontano dalla pietra sopra cui ne parlavo) se non lo sai già…

Ma oggi mi sento spammatore, perciò bandirò le ciance e riassumerò per i pietri e le pietre del mondo:

Rullo di tamburi

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La solitudine dei numeri secondi

La solitudine dei numeri secondi

Cara lettrice sconosciuta,

Non farti ingannare dal titolo. Di solito ne cerco uno intrigante e poi fatico per ore a scrivere qualcosa di anche solo lontanamente relazionato, fallisco, vado in panico, e taglio bruscamente.
Non sto esagerando, controlla pure.

Potrei inventare tristi storie da secondogenito trascurato; come il numero due è cresciuto all’ombra dei successi del numero uno, ma mentirei.
Quindi, ora che tanto la tua attenzione c’è l’ho, compirò un largo giro intorno al titolo e parlerò di semplice solitudine. Ai numeri secondi arriveremo dopo: devo ancora decidere cosa intendere per numeri secondi.

Nello scorso numero, ho parlato di quanto fosse difficile scrivere bene, oggi preferisco parlare di quanto sia difficile scrivere e basta. Principalmente perché così preparo scuse per chi chiama a gran voce un altro libro.

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Confessioni di un editato

Confessioni di un editato

Cara lettrice sconosciuta,

Ah, la scrittura…
Una bestia selvaggia, pressoché indomabile.
In tempi moderni potremmo perfino dire che sia uno dei due famosi liocorni.
Per averne prova basta aprire una qualsiasi rete sociale. O WhatsApp. Perfino un quotidiano, diamine!
Ovunque tu legga, l’elusiva scrittura si fa beffe di noi: periodi contorti, errori grammaticali, mancanza di punteggiatura, inglesismi… Tutti insieme appassionatamente.

Sembra che nessuno si salvi. Persino gli autoeletti difensori del Giusto, spesso e volentieri, sono vittime di sviste, regionalismi e… quant’altro.

Sì, quant’altro. Mi sono stufato di quest’incipit lagnoso e rococò e non ho più voglia di pensare al prossimo item dell’elenco.

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Mi sono innamorato di Audible

Mi sono innamorato di Audible

Il mio è un lavoro misterioso.

Alla stregua di quello di Chandler Bing, nessuno dei miei amici vincerebbe un concorso a premi, se messo alle strette circa cosa faccio.

Per farla breve, mi occupo di colore. Per farla media, sono consulente di gestione del colore. Per farla lunga avrei bisogno di troppo jargon che nemmeno io conosco, visto che vivo in Spagna e ignoro i termini tecnici italiani, quindi non la faccio lunga.

Tra gli aspetti del mio lavoro positivi e negativi allo stesso tempo ci sono i lunghi tragitti in auto di ditta in ditta. Una tipografia a Barcellona ha bisogno di me? No problem, tre ore e mezzo di macchina e ci sono, più il ritorno fan sette.
Due giorni dopo un plotter va ricalibrato a Madrid? Ho vinto altre sette ore di viaggio.

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Quando ti affezioni troppo a un personaggio

Quando ti affezioni troppo a un personaggio

…o a dei personaggi.

Non è quello che cerchiamo un po’ tutti, in fondo? Va be’, tutti noi che leggiamo/guardiamo quella parolaccia impostaci che è FICTION.

A me capitava spesso, e può essere tanto bello quanto frustrante, per non parlare degli effetti collaterali.

Vengo al sodo: ho appena finito di vedere The Office e, come non mi succedeva da tempo, ci sono rimasto male. Ma proprio male.
Cioè, è finita sul serio. Per sempre!
Finire un libro o una serie così è come seppellire un amico, in un certo senso. Quanto ti affezioni troppo a dei personaggi, inizi a darli per scontati. Poi, di punto in bianco, le pagine finiscono, la parola FINE sancisce la vera e propria fine di quella storia. E con lei la fine dei tuoi nuovi amici.
E tu stai male, vorresti vederli di nuovo, ascoltare nuovi aneddoti, ma non puoi. Puoi solo ricominciare da capo, ma non sarà mai più la stessa cosa.

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Elementare, Layne

Elementare, Layne

Nel suo sesto anno a questo mondo, Non tutti i principi nascono azzurri ha deciso di stupirmi.
Forse andare alle elementari ha fatto sì che uscisse dal guscio!

Non lo so, fatto sta che dopo i primi anni in sordina, poco a poco, sta ricevendo più attenzioni di quanto non sperassi, soprattutto considerando il mio talento (nullo) per fare promozione e il mio impegno (assente) nel farla.

Potrebbe quasi essere la volta buona che impari.

Colgo quindi l’occasione per celebrare un buon anno e ringraziare tutte le lettrici e lettori, presenti e future, che hanno fatto posto nel loro ereader per questa piccola avventura.

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