Quando ti affezioni troppo a un personaggio

Quando ti affezioni troppo a un personaggio

…o a dei personaggi.

Non è quello che cerchiamo un po’ tutti, in fondo? Va be’, tutti noi che leggiamo/guardiamo quella parolaccia impostaci che è FICTION.

A me capitava spesso, e può essere tanto bello quanto frustrante, per non parlare degli effetti collaterali.

Vengo al sodo: ho appena finito di vedere The Office e, come non mi succedeva da tempo, ci sono rimasto male. Ma proprio male.
Cioè, è finita sul serio. Per sempre!
Finire un libro o una serie così è come seppellire un amico, in un certo senso. Quanto ti affezioni troppo a dei personaggi, inizi a darli per scontati. Poi, di punto in bianco, le pagine finiscono, la parola FINE sancisce la vera e propria fine di quella storia. E con lei la fine dei tuoi nuovi amici.
E tu stai male, vorresti vederli di nuovo, ascoltare nuovi aneddoti, ma non puoi. Puoi solo ricominciare da capo, ma non sarà mai più la stessa cosa.

E se questo, per quanto agrodolce possa essere, è quello che cerca un fruitore di fiction, a maggior ragione è quello a cui punta un autore di fiction. E mi ci includo, anche se sono abbastanza sicuro di non avere ancora la gravitas necessaria per creare vicende e personaggi così toccanti.
Ma più che mai vorrei scrivere di personaggi veri, vivi, tanto da conquistarsi uno spazio speciale nei cuori dei lettori.
Voglio che soffriate, ma solo un pochino, grazie a me, al concludere i miei libri. Voglio arrivare, fosse anche solo una volta, a produrre quella sensazione magica che tanto mi piace sentire, nonostante mi faccia male.
Amo – e l’ho “scritto”, nel mio primo libro – quando finisco un libro e vengo colto dal desiderio di essere amico intimo dell’autore, per poterlo chiamare e fare quattro chiacchiere. Amo quando la stessa cosa succede con un personaggio.
Ecco, vorrei che succedesse anche a voi, e vorrei essere quel tipo di autore che risponde al telefono.

Il problema, per tornare al discorso principale, è che il fruitore, come un tossico qualunque, farebbe di tutto per immergersi di nuovo in quell’atmosfera magica, frutto di coincidenze temporali, stati d’animo, luoghi e periodi indipendenti dalla storia vera e propria.
Non so se mi spiego, ma, per quanto The Office sia bellissimo, forse cinque anni fa l’avrei apprezzato meno. Forse non mi avrebbe colpito allo stesso modo. Forse la città dove vivevo era quella sbagliata, forse io pensavo ad altro, allora, e non mi sarei affezionato così tanto ai personaggi.
Quando scatta la scintilla, tutto ha un suo peso. E riaccenderla non è così semplice, perché quel tutto è mutevole ed è di certo cambiato nel corso del tempo.

Il problema è che in questi ultimi anni (ma magari mi sbaglio e va avanti da secoli) sembra che gli autori se ne infischino e pensino solo a spremere la stessa arancia fino all’ultima goccia, e poi a schiacciare la pelle nella speranza che sia rimasto qualcosa. E poi a triturarla, liquefarla, allungarla con brodaglia aliena, per riproporla di nuovo, come se fosse la stessa spremuta succulenta del primo giorno.

E no!

Sto guardando voi, inutili trilogie, prequel, sequel, reboot, pentalogie, antologie, collezioni, ristampe, eccetera.

Non funziona così. Ormai quel tutto è cambiato. Il fruitore a cui era tanto piaciuta quella storia è cambiato a sua volta. Non siamo negromanti. Una storia morta è morta, concedetele un po’ di dignità!

Forse sono solo triste perché la mia serie preferita è finita, e ne vorrei ancora un po’. Solo un altro boccone.
Ok, lo ammetto, a volte funziona e gli astri si riallineano: guardate Cobra Kai!
No, sul serio, guardate Cobra Kai, è bellissima.

Dove voglio arrivare con questo? Non lo so più.

Ah sì, preparatevi perché ho deciso di scrivere un seguito di Non tutti i principi nascono azzurri.
E ci metterò dentro anche i pirati, ecco.

Rigorosamente privo-di-revisione-di-bozze vostro,
Andrea Gatti

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